*The New Noise_ Nazim Comunale (mar. 2021)
* Musica Jazz _ Lorenza Cattadori (jun. 2016)
*Jazzit _ Marco Delle Fave (nov. 2006)
*Musica Jazz _ Federico Scoppio (mar. 2007)
*All About Jazz, 10 CD nel CD-Player di… (oct. 2006)
*Prove Aperte _ Piero Quarta (oct. 2007)
*1.La Cronaca; 2. Cremona Produce _ Gianluca Barbieri (jan-feb 2007)
* Su Molester sMiles_Mondo Padano_ Fabio Canesi_ (jun. 2016)
Giancarlo Tossani: nodi in attesa di un destino
Knots And Notes è un buonissimo disco uscito da poco per Auand a nome Big Monitors, un quintetto guidato da Giancarlo Tossani (piano, wurlitzer, virtual synths) con i fratelli Bondesan (Tobia al sax alto e Michele al contrabbasso), Andrea Grillini alla batteria, Gabriele Mitelli (cornetta, flicorno alto e synth modulari) e Amanda Noelia Roberts ospite alla voce in due pezzi. Il lavoro, in tredici tracce, prende spunto dalla musica del grande William Parker e, tra numeri autografi e convincenti versioni, propone, più che un tributo, una libera interpretazione dell’arte di un musicista senza tempo. Era dunque il caso di approfondire un poco il discorso con il leader della formazione, Giancarlo Tossani.
Nell’ultimo, magnifico, enciclopedico box di William Parker, Migrations Of Silence Into And Out Of The Tone World, da poco uscito su Centering Music/Aum Fidelity, c’è una frase che mi ha colpito molto: “Improvisation is another word for love”. Knots And Notes è un disco tutto scritto o avete lascio spazio per la creazione istantanea? Qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
Giancarlo Tossani: Ecco vedi. Eccoci subito ai nodi, nodi d’amore, di sicuro è necessario un legame amoroso coi tuoi partner e con chi ti ascolta. Anche se si improvvisa da soli non si è mai soli, ci si rivolge e ci si confronta sempre con qualcuno in absentia. Amore e improvvisazione sono, diciamo, uno stato creativo e di apertura che hanno parecchie cose in comune, ovviamente anche gli errori. Quanto alle mie partiture, che siano più o meno articolate, lasciano – anzi richiedono sempre – l’apporto degli altri musicisti, che sono a tutti gli effetti parti integranti della partiture. Oltre al testo, diciamo seminale, della composizione, ogni musicista dà vita a un sotto-testo, a una molteplicità che confluisce in una tessitura comune. Come in ogni conversazione una piega inaspettata può rivelarsi estremamente interessante e feconda, come pure il rischio sempre presente è quello di perdere il filo. Ma più che usare meccanismi precostituiti e strutture rigide per articolare il discorso, è importante seguire il principio di un ascolto reciproco attento e stimolante. Per me l’improvvisazione è innanzitutto piacere della sorpresa, del momento in cui raggiungi la cosa che risuona in modo particolare e che in un certo qual modo percepisci come agìta da qualcun Altro, un po’ come ascoltarsi dall’esterno. È una sensazione difficile da spiegare, ma senza orientalismi, spiritualismi o roba del genere.
La metafora del nodo che usi mi fa pensare alla navigazione, ma non solo: nel jazz i cambi di equipaggio spesso sono la regola, e le rotte possono cambiare anche in corso d’opera; a che tipo di viaggio sei interessato tu, e credi che i nodi vadano necessariamente tutti sciolti per salpare in musica, o che possa essere interessante anche capire perché si formano (penso ad esempio a Lacan e alla relazione nodale da lui teorizzata tra Reale, Simbolico ed Immaginario nello spazio abitato da chi parla)?
L’idea guida, il filo rosso, un termine che ha origine marinaresca tra l’altro, del progetto è quello del nodo. Si fa subito nodo già nelle parole del titolo del cd, nella grafia e nella pronuncia, quasi omofona, di Knots Notes. Nel nome del gruppo, Big Monitors, che altro non è se non l’annodarsi delle lettere iniziali dei cognomi dei componenti. Il nodo che lega qualsiasi espressione collettiva del suonare, a seconda delle situazioni formali con un grado più o meno vincolante. Il nodo che abbiamo fatto alla musica di William Parker. Il nodo che lega le generazioni dei musicisti, un aspetto più spiccato nel jazz che altrove. Per tornare alla tua domanda, immagino che tu ti riferisca al nodo borromeo nella teoria di Lacan. La risposta nella teoria psicanalitica è che questo nodo è indispensabile perché abbia luogo la soggettività. Pensare di poter sciogliere tutti i nodi, quindi, è più che altro un’illusione propria al campo dell’Immaginario. Credere che sia possibile annodare tutto appartiene del resto alla stessa illusione, di tipo paranoide stavolta. Bisogna quindi sì sciogliere nodi ma anche formarne. Come si dice… Non buttare il bambino con l’acqua sporca. L’ampiezza dei significati in uso nella lingua esprime immediatamente la complessità di questo concetto, ampio e ambivalente. Nodo come intreccio, che può essere legame positivo ma anche negativo e costrittivo. Ornamento e bellezza ma anche groviglio, confusione, impedimento. Il nodo fra le persone è una relazione decisamente complessa. Anche nella musica non può che essere così. Nel voler annodare la nostra a musica a quella di William Parker ci siamo confrontati con la molteplicità di questi aspetti. Non è quindi un semplice “tribute to” o una riproposizione tout court. Per rendere ancor più evidente questa intenzione, in più di un caso, alle sue composizioni si sono annodate senza soluzione di continuità composizioni originali. È piuttosto un salpare da un porto e raggiungerne un altro, per restare alla tua immagine nautica. Ho poi voluto che i brani “principali” e più strutturati fossero intervallati, nella nostra ottica quindi diremmo annodati tra loro, da brevi momenti alla cui base stava un semplice idea musicale estemporanea, con organici differenti, a forte tasso di improvvisazione collettiva. I titoli, infatti, indicano diversi tipi di nodi: Slipped, Binding, Sennit, Lashing, Whipping, Hitch.
Per farla breve, come dice lo stesso William Parker: Suonare la musica di qualcun altro è una faccenda veramente delicata. Il miglior approccio alla musica di qualcun altro è di fare le cose in una propria chiave [lo si trova in Marcello Lorrai, William Parker. Conversazioni sul jazz]. Lui stesso ci ha fatto omaggio di buone parole e ringraziato: Giancarlo Tossani and Big Monitors have created a new sound from my compositions giving them a new life, this is always an exciting treat. Also I enjoyed the original compositions. Getting to the essence of the music; unique arrangements andperformances not only of my music but their own compositions. “Knots and Notes” rises up and takes off. All that we can ask of any musician is to be oneself. This music finds its own voice. A voice that is much needed in this time. Great Job. Thank you for the Music.
Nella cartella stampa racconti di un non essere un fan accanito di William Parker; come ti sei mosso nella scelta del repertorio per il disco?
Come ho già avuto modo di dire, questa idea è nata quando Michele Bondesan mi ha proposto alcuni brani di William Parker come base per un concerto che avevamo in programma ovvero: In order to survive, Hunk Pappa Blues, O’Neal’s Porch e Old Tears. Avevamo quindi già una lista abbastanza corposa. Poi, dopo un ascolto attento, ho trovato un altro paio di cose, Vermeer, a cui fa da complemento il brano originale Mr Reeve (un po’ come Dr Jekyll e Mr. Hyde. Qualcos’altro è in filigrana come per esempio I had a Dream Last Night e Flag nella traccia più elettronica ossia Autumn Leaves (non quella famosa).
Quali i musicisti ed i dischi fondamentali nel tuo percorso?
Suonare è anche un processo di ascolto e infatti sulla copertina del mio primo disco citavo una frase di J.L. Borges, una sorta di dedica a tutta quella musica che aveva reso possibile la mia. “Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto, io sono orgoglioso di quelle che ho letto”. Quindi direi senz’altro Paul Bley tra i pianisti. Franco D’Andrea tra i maestri. Poi ovviamente Ornette Coleman è uno di quei musicisti che più di altri mi hanno indicato un nuovo orientamento, che mi ha aiutato a svincolarmi da rigidi parametri di armonia, melodia, ritmo, spingendomi a ragionare in modo differente e a considerare la musica più in termini di equilibrio e di flusso, di dialettica tra formale e informale, a trovare uno spazio sonoro particolare. Ma ovviamente c’è dietro una lunga storia personale fatta prima di rock, di prog, di jazz. Un elenco troppo lungo. Ti direi Bitches Brew o in generale Miles Davis, giusto perché è un po’ il Kubrick del jazz, in ogni genere e momento è sempre stato il top. Tim Berne, che ho avuto la fortuna di vedere e ascoltare dal vivo fin dagli anni ‘80. Attualmente una delle cose che trovo più interessanti è Craig Taborn. Mi viene in mente ora che a entrambi ho organizzato un concerto, a Miles Davis purtroppo no!
Mi racconti il tuo primo ricordo musicale?
Non saprei dirti qual è il primo, tutto per me cominciò comunque quando mio padre tornò a casa con un organo elettronico, ne ricordo ancora il modello: Bauer Combo.
Come funziona l’alchimia in una formazione come Big Monitors, dove convivono generazioni lontane e diverse?
In Big Monitors abbiamo un bell’assortimento di generazioni. Un boomer (io), quattro millennials (Michele e Tobia Bondesan, Mitelli, Grillini), una zoomer (Amanda Roberts) oltre che l’assente, ma tuttavia presente, boomer William Parker. Un bell’assortimento. Penso di poter dire, parlo per me ma credo valga per tutti, che ci si è trovati assolutamente a proprio agio sia dal punto di vista musicale che umano. Sono musicisti formidabili, giovani e già con background di tutto rispetto. Ma l’idea era proprio di sottolineare che, in modo maggiore che altrove, il jazz è anche questo: un nodo fra le generazioni, che va incoraggiato, nella musica come nella società. Nel jazz capita frequentemente che musicisti più anziani chiamino a suonare con sé musicisti più giovani. In questo caso però la prospettiva è diversa, la scintilla scaturisce dal fatto che Michele Bondesan, che ha meno della metà dei miei anni, mi ha proposto dei brani di William Parker nei cui riguardi, si badi bene, con il massimo rispetto e ammirazione, ho un interesse relativo, sostanzialmente per il fatto che apparteniamo più o meno alla stessa generazione musicale e abbiamo una stessa sintonia di fondo.
Insomma, non ho chiamato musicisti più giovani per suonare la mia musica perché la “ringiovanissero”. Ho, come dire, risposto a una sollecitazione inversa e mi sono posto una domanda. Come una diversa generazione ascolta, intende e interpreta una certa musica, magari già storicizzata, rispetto a chi, come me, ha un percorso storico-musicale differente e la ascolta con orecchie diverse? Questo cosa aggiunge e cosa ci si scambia? Il risultato di questa rivisitazione poi lo testimonia in qualche modo? Il giudizio ovviamente spetta agli ascoltatori.
Dal tuo punto di vista, pandemia a parte, qual è lo stato di salute della musica creativa in Italia?
C’è molta buona musica in giro. Difficoltà pratiche sono legate alle sempre troppo limitate risorse dedicate al jazz, fortemente presente nell’immaginario musicale dei media ma ancora troppo scarsamente presente nelle politiche reali. Ci sono in giro un sacco di giovani musicisti preparatissimi e strabilianti, purtroppo manca un ricambio generazionale negli ascoltatori, il pubblico è troppo âgée e così pure, troppo spesso, gli operatori del settore. Insomma, al problema generale della mancanza di opportunità dei giovani si unisce quella della poca diffusione e concreta conoscenza della musica jazz. Ça va sans dire? Serve maggiore attenzione da parte delle istituzioni e maggior attivismo e comunanza da parte dei musicisti. Tutti nodi che la pandemia ha evidenziato e acuito.
Leggo nella tua bio di studi filosofici: c’è un pensatore che ispira o guida il tuo agire in musica? O è la musica stessa che è filosofia, in qualche modo? Dove la incontri la musica? La capti nell’aria, la insegui sul foglio, la vedi? Come sono nati ad esempio i tuoi temi in questo disco?
Mi fanno spesso questa domanda, in realtà direi che nella musica mi sforzo di non concettualizzare troppo il mio lavoro, anche se poi innegabilmente un po’ ci casco. Cerco di non teorizzare troppo, di non sovrapporre una grammatica al risultato, ma certamente ho bisogno un pensiero, di una direzione. Non c’è nessun pensatore in particolare ma certamente quello di cui la filosofia in genere può renderti consapevole, per esempio, è la complessità. Non sono un compositore prolifico e instancabile come William Parker che, come dichiara, ogni giorno scrive qualcosa, del resto il suo 10 cd-box ne è la riprova. Non ho questo bisogno quasi “fisiologico”. In genere quel che mi muove è un obiettivo. Un progetto è ciò che mi fa cercare la musica. Quindi in realtà è una ricerca, non casca tra capo e collo. Accumuli cose, poi selezioni: un processo di raffinazione. Più sul foglio che nell’aria. Talvolta invece capita, basta un ascolto e ti si aprono le porte. Quanto a questo cd buona parte delle cose originali era materiale giacente e in attesa del suo destino.
Una chiacchierata su Molester sMiles qui http://www.giancarlotossani.com/una-chiacchierata-sui-molester-smiles/
Musica Jazz _ Lorenza Cattadori (giu. 2016) qui http://www.giancarlotossani.com/intervista-e-recensione-su-musica-jazz-giugno-2016/
Jazzit, Marco Delle Fave (nov. 2006)
Giancarlo Tossani: un filosofo prestato alla musica oppure un musicista innamorato della filosofia?Ovviamente nessuna delle due definizioni è totalmente veritiera: i debiti, i prestiti e le invidie di questi due “io” innamorati sono reciproci. La figura dell’innamorato però mi piace: il suo è uno stato creativo e di apertura che ha parecchie cose in comune con quello dell’artista, talvolta anche gli errori. In realtà, a priori, non concettualizzo in modo troppo strutturato il mio lavoro, anche se poi innegabilmente emerge, anche all’ascolto, un personale atteggiamento speculativo connaturato che interagisce e allude, in modo diversificato, ad altri ambiti espressivi.
A Marco Valente e alla sua Auand, si deve il merito di averla reso visibile alla grande platea (inter)nazionale. Come è iniziata la vostra collaborazione?
Semplicemente con l’invio del demo di “Beauty Is A Rare Thing”. Non ci conoscevamo precedentemente, anche se ovviamente apprezzavo la linea Auand, la sua qualità e personalità oltre che la convinzione e il coraggio (di sicuro una buona dose nel mio caso!). Una sorta di adozione a distanza quindi, in cui stavolta – che felicità! – è il “Sud del mondo” a svolgere il ruolo di sostegno, alla quale ha fatto seguito un assiduo “cyber-romanzo” epistolare, sul cui lieto fine siamo entrambi fiduciosi.
Synapser: il suo quartetto con Succi, Tito Mangialajo Rantzer e Calcagnile si distingue per feeling, interplay e dialogo musicale. Quale è il segreto della vostra alchimia?
Un buon segreto è quello che nessuno conosce. Quando abbiamo tentato di razionalizzare troppo mi sono accorto che ciò arrecava delle debolezze.
Direi che l’apertura di cui dicevo prima sia la cosa fondamentale, oltre all’aspetto umano e al comune interesse per un certo tipo di creatività. Oltre al contesto, seminale, della composizione, quando si realizza un brano ogni musicista dà vita a un sotto-testo, a una molteplicità che, se la cosa funziona, confluisce in una tessitura comune che a questo punto è a più dimensioni. A questo principio collettivo e comunicativo del resto allude proprio il nome del quartetto, Synapser.
Nel suo precedente lavoro (“Beauty is a rare thing” sempre per AUAND) il riferimento a Ornette Coleman suona come una sorta di manifesto per una visione di musica intesa come sinonimo di ricerca. Nelle sue composizioni si nota il richiamo alle tipiche strutture aperte colemaniane che sembrano però “mediate” da una attenzione estrema agli spazi timbrici e armonici. Un tentativo di attualizzare le prerogative del sassofonista californiano oppure voluta commistione con la cultura jazzistica melodica di stampo europeo?
To be or nette to be? Di Ornette Coleman, illuminante, mi piace interpretare la suggestione armolodica come soluzione trasversale, in cui lo scarto tra la parola e la lingua data è però conferma di reciproca appartenenza e possibilità di un nuovo senso. Appunto la “deformazione coerente” del titolo di questo secondo cd. Coleman è quindi una risonanza costante del mio lavoro, ma altre cose e parametri, più o meno consapevolmente, ne fanno parte. Questo lo arricchisce e allo stesso tempo ne mette in evidenza il carattere sempre non-compiuto: e quindi certamente il jazz europeo ma anche per es., tanto per restare sul continente e visto che il tempo, lo sappiamo, non va in una sola direzione, una certa qualità narrativa e articolata del progressive anni 70.
Ritorniamo al suo ultimo lavoro. “Coherent Deformation” sembra riprendere e, in un certo senso, approfondire il linguaggio musicale elaborato con “Beauty is a rare thing”. Una prova corale, con temi densi e un linguaggio improvvisativo libero e pungente. Si nota qualche innesto elettronico in più e una maggiore attenzione all’elemento percussivo.
A parte l’aspetto autobiografico, di lunga convivenza di pianoforte e strumenti elettronici – questi a un certo punto abbandonati e ora invece ripresi in una prospettiva diversa – direi che mi interessava l’idea di ampliare lo spazio sonoro ma anche di introdurre un aspetto ritmico e temporale attraverso l’uso di tecniche che hanno una peculiare dimensione del tempo, diversa da quella jazzistica, una particolare iterazione e una possibilità manipolatoria, una performatività fisica e ludica che gli strumenti tradizionali hanno in misura minore o forzata.
Progetti futuri?
Per ora prendere un po’ di tempo per vedere cosa potrebbe scaturire da questo ultimo lavoro:mi viene in mente, anche se con un senso diverso dall’originale, l’immagine proustiana dei fiori giapponesi di carta che bisogna attendere di immergere in acqua per far sì che rivelino la loro forma e colore. Mi piacerebbe lavorare di addizione allargando il quartetto, ma anche lavorare nella direzione opposta, di sottrazione o di divisione, ancora non so bene: la matematica non è mai stata il mio forte :).
Musica Jazz_interview Federico Scoppio (mar. 2007)
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta i tuoi primi ascolti musicali. Come ricordi, Giancarlo, quegli anni?
La radio, che in quei tempi era un valido veicolo di informazione, trasmetteva molto rock e pop e di conseguenza si assorbiva l’immagine e la cultura degli anni, con quel misto di identificazione e ribellione tipico degli adolescenti. Al jazz mi sono accostato nella seconda metà del decennio, in un ambito dove spesso si coniugava estetica e politica, ricco di intuizioni e anche di tutte le ingenuità e i possibili errori di cui oggi potremmo parlare. Quindi il free jazz, il linguaggio simbolo per esprimere un diffuso senso di contestazione o di rivolta, insomma, free jazz/people power per parafrasare il noto saggio. E soprattutto aveva una grande peculiarità: l’improvvisazione.
Ci torniamo, sul concetto di improvvisazione. In che modo hai invece scoperto il pianoforte? Tu vanti famosi insegnanti come Luca Flores e Franco D’Andrea…
Ho iniziato in modo molto semplice: avevo undici, dodici anni, con una maestra di musica vicina di casa. Ma naturalmente, visti i modelli cui puntavo, non avevo un pianoforte ma un organo elettronico, ne ricordo ancora il modello: Bauer Combo. E quindi già un inizio ibrido, tra acustico ed elettronico, fra tradizione e musica del tempo, anche se dal punto di vista dell’impostazione didattica era un po’ un disastro. Ho proseguito con Nino Donzelli, un’istituzione cremonese, complice dei primi esordi di Mina, ma è con Mario Piacentini e Roberto Cipelli, anche lui cremonese e già ai suoi esordi, che mi sono accostato alla tecnica del pianoforte jazz. Terminata l’università ho deciso di impegnarmi e ho frequentato per alcuni mesi Luca Flores, di cui non si parlerà mai abbastanza, e poi i seminari di Siena, dai quali proviene la folgorazione per Franco D’Andrea con cui ho studiato in seguito a Milano. E poi ancora altre cose, tra cui seminari con John Taylor e Mal Waldron. E intanto formazioni di new wave, di rock jazz e di jazz con i musicisti della zona e occasionalmente con quelli che passavano per la città.
Come hai sviluppato la pratica e la passione per la musica improvvisata? Ripercorriamo i tuoi ascolti, i maestri e gli incontri.
Benché ragazzino serio e studioso, ho sempre rifiutato al pianoforte la noia degli esercizi e non ho mai trovato grande appagamento nell’esecuzione di una partitura né nella ripetizione di un brano. Quello che mi appassionava davvero era mettermi a improvvisare, anche se in effetti probabilmente non conoscevo ancora questo concetto; attaccare di punto in bianco a suonare quei tasti a mio piacimento, che poi di fatto è ciò a cui aspiro ancora oggi. Dei vari incontri ritengo il più importante quello con Franco D’Andrea, maestro a trecentosessanta gradi della tradizione e dell’innovazione, con cui a lezione si parla indifferentemente di Thelonious Monk come di Sigmund Freud.
Questo percorso ha influenzato la tua esperienza nell’insegnamento?
Visto che abbiamo appena menzionato Sigmund Freud, ricordo che indica tre «mestieri impossibili»: psicanalizzare, governare e, appunto, educare. Ossia mestieri che prevedono qualità che nessuna autorità può realmente conferire: credo che tutti ne abbiano potuto fare esperienza nella propria vita scolastica. Ciò ovviamente, si badi, non prescinde da tutte le competenze che sono comunque necessarie e indispensabili. La mia esperienza mi dice che anche qui si tratta di interplay: la cosa funziona solo quando constati un reciproco arricchimento e lo sforzo di comprendere l’altro e di ascoltare i suoi processi emotivi e intellettuali, che poi è una via per chiarire i tuoi. Non si tratta solo di trasmissione di un sapere o di una tecnica. In una recentissima intervista Omette Coleman diceva alcune cose su «Sound Grammar» che forse possiamo interpretare così: c’è una grammatica della musica, dal momento che se ne parla e che, sempre nel parlare comune, ha delle categorie; ma il suono esiste da ancora prima e ha qualità e significati diversi. La musica è un pensiero ma, dice Coleman, l’idea è contenuta nella nota. Questo equilibrio tra lingua e parola nell’insegnamento della musica jazz, come in altri linguaggi artistici, di fatto è molto complicato e si tende spesso a semplificarlo in modo normativo o schematico.
Ecco toccato un punto fondamentale della tua estetica. Quando si parla di te, spesso si fa riferimento alla concezione musicale di Ornette Coleman, galeotto ovviamente il tuo primo disco nel grande circuito jazz, «Beauty Is A Rare Thing» (Auand 2004). Quali aspetti della sua musica cerchi di fermare e approfondire?
Suonare è anche un processo di ascolto; sulla copertina del primo disco citavo una frase di Borges, una sorta di dedica a tutta quella musica che aveva reso possibile la mia. Insomma, Coleman è uno di quei musicisti che più di altri hanno indicato un nuovo orientamento. Che la bellezza sia una cosa rara si avverte dal fatto che probabilmente risiede altrove: non la si trova nei modelli generalizzati, che comunque possiedono un loro fascino ma una falsa bellezza. L’armolodia è un concetto che in Coleman è sfuggente e in evoluzione nel tempo. Più che una teoria è una suggestione che mi ha aiutato a svincolarmi dai rigidi parametri di armonia, melodia, ritmo, spingendomi a ragionare in modo differente e a considerare la musica, mia e altrui, più in termini di equilibrio e di flusso, di dialettica tra formale e informale, a inquadrarla in uno spazio sonoro e non intenderla unicamente come performance strumentale.
Filosofia, improvvisazione, composizione. In quale modo si collegano le tre conoscenze nella tua pratica musicale?
Innanzi tutto non vorrei incoraggiare troppo l’idea che io sia un musicista filosofale. Anzi, direi che nella musica riverso il mio aspetto meno discorsivo e razionale. Cerco in realtà di non teorizzare troppo, di non sovrapporre una grammatica al sound, per tornare al discorso di prima; diciamo piuttosto che c’è un ragionamento emozionale. Quello di cui la filosofia può renderti consapevole, per esempio, è la complessità. Da qui una chiave di lettura per questo mio, e nostro, tentativo di creare un ensemble che non sia riconducibile alla somma delle sue parti, e far sì che l’improvvisazione sia realmente un comporre istantaneo. Ciò comporta dei rischi ma anche la possibilità di liberare le “idee” colemaniane.
Il quartetto Synapser, con il quale hai registrato i due dischi per Auand, «Beauty Is A Rare Thing» e il più recente «Coherent Deformation», è una formazione stabile, anche nei singoli musicisti. Come li hai scelti e hai mai pensato di cambiarli oppure di variare tipo di organico? Non hai mai avuto il desiderio di invitare qualche artista straniero?
Mi sono innamorato di Achille Succi al primo ascolto sebbene in quell’occasione suonasse in un’orchestra, più di una decina di anni fa, e da allora la mia collaborazione con lui è proseguita, in modo sporadico ma costante. Con Tito Mangialajo Rantzer avevo avuto occasione di suonare un paio di volte. Ho incontrato Cristiano Calcagnile direttamente in studio, quando abbiamo registrato il primo Cd: una piacevolissima sorpresa, suggeritami dalla perspicacia di Tito. Mi trovo assolutamente a mio agio con loro dal punto di vista sia musicale sia umano. Sono ormai parte integrante della partitura, di quella partitura approssimata che pensa a un interprete ben preciso. Le note sono importanti almeno quanto gli interpreti. Per quest’ultima incisione in effetti avevo pensato di allargare a un ospite, a condizione che non fosse un semplice incontro o espediente discografico. Mi sarebbe piaciuto avere con noi Erik Friedlander ma ho poi saputo che, dal punto di vista concertistico, lavora esclusivamente sui propri progetti.
Domanda d’obbligo. Come mai ti sei affacciato così tardi sul mercato discografico italiano del jazz?
L’idea del mio progetto discografico, «Beauty Is A Rare Thing», è nata dopo un ritiro musicale non breve; dall’urgenza e dal desiderio, quasi la necessità, di dare forma e consistenza al lavoro e a pensieri musicali che sentivo ormai maturi e significativi. La mia è la ricerca di uno stile, di quella personale deformazione coerente che da il titolo a quest’ultimo disco. Unisci questo a una certa pigrizia e a una sorta di rigore…
Come sei arrivato alla Auand di Marco Valente?
Nel caso del primo disco ho registrato e in un secondo momento ho cercato un’etichetta discografica che fosse interessata a produrlo. Con mio grande stupore ho ricevuto diverse risposte positive, tra cui c’era la Leo, nel cui catalogo si trova buona parte della storia della musica creativa degli ultimi decenni. La risposta di Auand è quella a cui segretamente aspiravo.
All About Jazz, 10 CD nel CD-Player di… (oct. 2006)
10 CD nel CD-Player di…
GIANCARLO TOSSANI
rubrica a cura di Vincenzo Roggero
01. Kneebody – Kneebody (Green Leaf – 2005).
È davvero il mio disco dell’anno, pregnante e gustoso: libero jazz in libero melting-pop. Enfasi?
02. Glenn Gould – Goldberg Variations.
Bach è un ossimoro (gr. oxymoron “acuta follia”), logica emozionante, rigore appassionante, pensiero lirico… e Gould ne è lo speciale paradossale interprete, un turbine intelligente.
03. Paul Bley – Time Will Tell (ECM – 1994).
Paul Bley maestro dell’ellissi… maestro della one-note-band…
04. Jimmy Giuffre – Jimmy Giuffre 3, 1961 (ECM – 1961).
Paradossale. Dopo 45 anni potrebbe ancora essere il miglior disco dell’anno.
05. Aphex Twin – Come to Daddy (Warp – 1997).
Fin dalla copertina, chiasmico (!): specularità e moltiplicazione, ovvero un twin peaks del remix, un bit torrent multiforme… e poi un po’ di brain dance è un buon compromesso per chi muove poco i piedi e tende a muovere troppo le mani sul proprio strumento.
06. Tim Berne – The Shell Game (Thirsty Ear – 2001).
Il gioco delle tre conchiglie, ma senza barare o forse sì, non proprio dove te lo aspetti, imprevedibile ma solido. Metaforico, mi sento traslato: non esiterei a definire Berne il mio compositore preferito.
07. Jon Ballantyne: Round Again (NY Jam – 2000).
Similitudine? Capita di sentire a volte delle strane coincidenze, magari solo ideali, di afferrare delle cose tra te e l’altro… Imperdonabilmente poco noto, pianista canadese risolutamente moderno.
08. Ornette Coleman – Beauty is a Rare Thing (Atlantic – 1959/61).
Ignorando un’etimologia del… cavolo (cole), Ornette è cole man, l’uomo del passo, ottima guida per valicare i confini, ma anche anacoluto, elaborata ignoranza delle regolarità sintattiche.
To be or net to be? To be Ornette, to be…
09. Zoogoo – Zoogoo
Ossia l’ultima uscita…tanto per dire che le cose escono al di là dei nostri cd-player…della net label You are not stealing records, ovvero: Non stai rubando dischi.
Citazionista: manipolazioni al gusto postmoderno e d’arte povera, dove i manuali dei software prendono il posto dei manuali d’armonia (con simpatiche conseguenze sul pensiero compositivo…) e le net label il posto delle etichette discografiche tradizionali.
10. … visto che nei commenti precedenti mi sono avvalso, come suggestione e a volte come chiave interpretativa, di una figura retorica, non posso che concludere con una di quelle fondamentali: la metonimia, figura della contiguità e quindi… last but not least i CD degli amici… e soprattutto quelli a venire (sia i CD che gli amici).
Prove Aperte, Piero Quarta (oct. 2007)
Capita raramente di imbattersi in ascolti stimolanti, di quelli che fanno rialzare il capo appesantito dal piattume che aspira ad inghiottirci. Mi riferisco a quello che normalmente captiamo con le orecchie e con gli occhi senza poter scegliere. Nel jazz, per fortuna, questo accade meno, forse anche perché nel nostro paese esso rappresenta un’isola circondata da un mare quasi sempre grosso che rende difficoltosi i collegamenti con la terra ferma.
La musica del quartetto Synapser contenuta nel CD “Coherent Deformation” è molto stimolante. Il suo ascolto ridesta dal torpore, esige finalmente attenzione e pretende ripetuti ascolti successivi per scoprire sempre nuovi elementi. E’ musica che non stanca, nonostante la prima apparenza suggerisca una certa difficoltà a concedersi, ma questo dipende solo dalle nostre orecchie sempre più inquinate, come dicevo prima.
Coherent Deformation è la sublimazione del dialogo. Anzi, per dirla meglio, è la rappresentazione di come dovrebbe essere una vera comunicazione tra persone. Un dialogo cioè dove ogni partecipante interviene non per urlare ed imporre agli la propria opinione, pratica che porta inevitabilmente alla sterilità e alla inconcludenza, ma semplicemente per apportare il proprio contributo, sempre pronto ad essere modificato e adattato sentendo le opinioni e le idee altrui. Il tutto per arrivare a proporre all’esterno una opinione comune (il “suono” del gruppo).
I musicisti di Synapser riescono ad ottenere questi risultati e sono il pianista Giancarlo Tossani, il sassofonista e clarinettista Achille Succi, il contrabbassista Tito Mangialajo Rantzer ed il batterista Cristiano Calcagnile. Basta ascoltare il CD per capire che si tratta di musicisti di profonda cultura e preparazione, dotazioni indispensabili per muoversi in terreni apparentemente sconnessi come quelli da loro esplorati.
E’ giusto fare una menzione particolare anche per Marco Valente, curatore della Auand Records a cui va il merito di proporre con questa etichetta discografica lavori di notevole spessore come questo di Synapser, che tra l’altro è il secondo dopo “Beauty is a rare thing” del 2004.
Giancarlo Tossani, che firma otto dei nove brani presenti nel disco, rappresenta un po’ il motore del gruppo, o forse sarebbe meglio dire il punto di aggregazione, sentiti gli sviluppi della musica. Giancarlo ha già avuto modo di farsi apprezzare e la rivista Musica Jazz lo ha proclamato “miglior nuovo talento italiano 2006”. Cerco di fargli alcune domande suggeritemi dalla curiosità di sapere se qualche mia intuizione scaturita dagli ascolti sia più o meno aderente alle intenzioni del gruppo e anche per far conoscere a me e a chi legge ulteriori particolari su questo progetto.
La prima domanda è questa: L’ascolto reciproco, quando si suona, è molto importante. Nelle vostre performance ciò è l’elemento essenziale. Vi capita a volte di trovare, mentre state suonando, sviluppi inaspettati del vostro dialogo che vi portano da un’altra parte rispetto a quello che magari intendevate fare inizialmente?
Certamente, e come in ogni conversazione una piega inaspettata può rivelarsi estremamente interessante e feconda. Ovviamente il rischio sempre presente è quello di perdere il filo. Ma più che usare meccanismi precostituiti e strutture rigide per articolare il discorso cerchiamo di seguire piuttosto il principio di un ascolto reciproco attento e stimolante.
Per parlare in modo specifico della musica di “Coherent deformation” partirei con “Translated Rooms”, il brano di apertura, dove si nota come l’improvvisazione collettiva, che rappresenta lo sviluppo del brano, parta da variazioni sempre più articolate del tema iniziale. E’ un modus operandi predefinito?
La variazione tematica è uno degli espedienti formali basilari per dare coerenza al discorso improvvisativo e quindi viene usato frequentemente. Però hai visto giusto… il titolo stesso sottintende a questo. Il tema di “Translated Rooms” vuole essere una traduzione-variazione di un certo tipo di tema. In questo senso è il più “jazzistico” del cd. Ma appunto tradotto, in modo allusivo. C’è un gioco di parole nascosto nel titolo, celato volutamente dall’uso improprio di rooms anzichè stanzas, “stanza” nella sua accezione poetica, come strofa. Se letto in italiano, pur mantenendo l’ambiguità, diventa più chiaro, stanze tradotte, come dire…elementi melodici e formali ripresi da altre composizioni ma mutati, allusi appunto, genericamente citati ma trasformati.
In “Sound For Swimming” si ascoltano alla fine, dopo vari sviluppi improvvisativi, punti di raccordo rappresentati da frammenti melodici esposti all’unisono dal sax contralto e dal contrabbasso, o dal sax contralto e dal piano o altro. E’ una cosa che hai previsto in fase di composizione?
Non ricordo ora con precisione l’andamento di questa sessione di registrazione…ma è un po’ come alla fine di un “dialogo”, riprendendo questa immagine, questa lettura che hai dato della nostra musica nella tua prima domanda, stringersi a turno la mano al momento del congedo…comunque per me il tema è essenziale come elemento formale, motore e cornice sostanziale di quel che accade poi, elemento generatore e non solo una cornice vuota, anche se bellissima.
“Hip Hop Zero Up And Down” parte dalla libertà totale rappresentata dall’improvvisazione collettiva fino a giungere anche qui ad un tema finale proposto in unisono. Dà l’idea di un trovarsi dopo una lunga ricerca. E’ così?
In questo brano più che in altri c’è un elemento narrativo, in un senso particolare naturalmente, che alcuni hanno colto e che probabilmente è radicato nel progressive-rock dei miei ascolti giovanili, in certi dischi che avevano con un po’ l’andamento del poema sinfonico, che so… i Genesis per esempio. Insomma un’articolazione musicale con momenti, episodi che potrebbe fare pensare o immaginare storie diverse, comunque appunto cammini differenti che si ritrovano nello scioglimento finale all’unisono.
Nel brano “The Fog”, l’unico che non porta la tua firma, scritto da John Carpenter, il delicato dialogo tra il piano ed il clarinetto ben rappresenta il senso di sospensione che ci si può trovare a vivere in particolari momenti. Ogni riferimento al titolo è puramente casuale?
Apprezzo molto i film di Carpenter e anche le musiche che lui stesso compone, la loro semplicità ed efficacia. In particolare “The Fog”, un “horror politico” che in modo fantastico ma lucidissimo esplicita l’aspetto cruento e di sopraffazione in cui è radicata la storia del Nuovo Mondo. Tutti noi quattro della band poi siamo di area padana, cresciuti con la nebbia, spesso anche una nebbia non solo atmosferica… L’atmosfera sospesa comunque è già nell’originale, nell’impalpabile del titolo.
“Band Up Art” rappresenta per me il dissolvimento della struttura. L’immagine che l’ascolto evoca in me è quella di un treno preso al volo senza vedere la destinazione, perché la cosa più importante in quel momento è allontanarsi dalla stazione di partenza (la struttura). Mi devo far vedere da un bravo specialista o trovi qualcosa di rispondente ai vostri intendimenti?
Anche qui c’è un giochino, basato sull’omofonia con Bande à part, un film di Jean-Luc Godard degli anni ’60. La scena forse più famosa è quella della corsa a perdifiato e scanzonata nelle gallerie del Louvre nel tentativo di stabilire il minor tempo di permanenza in questo “tempio dell’Arte”, un po’ come questa corsa del treno che l’ascolto ti evoca che è un po’ una scommessa come nel film e che allo stesso modo poco si sofferma sulle strutture consolidate…. Comunque come vedi anche qui ritorna quella suggestione narrativa che io trovo sia presente nella nostra musica.
“Double- Face” è il brano che più amo riascoltare. Contiene elementi musicali di notevolissimo spessore. Il movimento armonico del piano che sostiene la linea melodica del sax all’inizio, che si sviluppa poi in un suo fraseggio ricchissimo di variazioni ritmiche e poi si ripropone da solo alla fine è realmente interessante. Sembra un brano pervaso sempre dalla ricerca di un contrappunto cameristico. Ci puoi dare qualche altra informazione sulla costruzione di questo brano?
In effetti c’è questo tipo di intenzione. Il brano ha una struttura molto tradizionale, la più tradizionale del cd, ossia AABA, ciascuna sezione di otto battute. Ma il “tema” nelle prime cinque battute della sezione A è però suddiviso in due parti uguali, con due linee melodiche sovrapposte nella prima parte e poi riprese ma invertite di posizione nella seconda parte. Da qui il titolo appunto. Anche nello sviluppo dei “soli” paralleli di sax e piano, nel loro dialogo, c’è questo tipo di inversione. Nella prima parte il sax è predominante e il piano in sottofondo, poi, attraverso una specie di dissolvenza incrociata, le posizioni dei due strumenti si invertono.
Naturalmente il lavoro in sala è ben diverso dalle performances dal vivo dove, sono sicuro, la vostra musica riuscirà ad essere a tratti anche trascinante e sempre coinvolgente. Vivendo in posti diversi, anche se abbastanza vicino, e dovendo curare anche molteplici impegni lavorativi paralleli, le occasioni per vedervi e portare avanti le tematiche di Synapser vanno ritagliate accuratamente. Riuscite ad incontrarvi spesso o almeno in maniera per voi soddisfacente?
Purtroppo no… ma non voglio aprire parentesi circa la difficoltà di presentare un progetto originale e che si vorrebbe con una lunga prospettiva temporale, credo che tutti i musicisti ne siamo amaramente consapevoli.
Avete altri progetti e idee, magari da testimoniare su CD prossimamente?
Niente di preciso, mi piacerebbe però accentuare l’aspetto elettrico, utilizzando il Rhodes per esempio e il basso elettrico. L’abbiamo già fatto in qualche concerto. Per quanto mi riguarda in particolare poi, questo mi aiuta a svincolarmi dall’aspetto prepotentemente armonico del pianoforte e approfondire invece, grazie all’elettronica, altri parametri sonori.
1.La Cronaca 2. Cremona Produce_ Gianluca Barbieri (jan-feb 2007)
1. LA CRONACA (jan 2007)
Giancarlo Tossani, com’è noto, è stato nominato “miglior talento jazz 2006” dalla rivista “Musica Jazz”. L’abbiamo contattato e ne abbiamo ricavato l’intervista che riportiamo.
Prima di questa conversazione, va precisato, abbiamo ascoltato con attenzione i suoi due cd “Beauty Is a Rare Thing” del 2004 e “Coherent Deformation” del 2006, entrambi eseguiti con il gruppo “Synapser” costituito, oltre che da Tossani al pianoforte, da Achille Succi al sax e al clarino, da Tito Mangialajo Rantzer al contrabbasso e da Cristiano Calcagnile alla batteria.
L’impressione ricavata fin dal primo istante si è materializzata in una notevole sorpresa, legata soprattutto alla creatività, alla maturità e all’innovazione stilistica che emergono da queste due opere.
Puoi delineare in breve il percorso che ti ha portato a decidere di pubblicare questi due straordinari cd? E perché con la Auand?
La decisione è nata dal desiderio, o forse dalla necessità, di una verifica del mio percorso musicale, di un punto fermo… inizialmente non sapevo se fosse un punto esclamativo o interrogativo, ma direi ora che il bilancio è positivo… Dopo la registrazione, con un certo stupore e molta soddisfazione sono stato immediatamente contattato dalla Leo Records, la nota e prestigiosa etichetta inglese che ha in catalogo buona parte della storia della musica creativa degli ultimi decenni: S.Lacy, A.Braxton, Sun Ra, Art Ensemble of Chicago tanto per dire i primi nomi che mi vengono in mente… Ma in realtà, fin dal principio, la mia idea era di pubblicare in Italia con AUAND, da parte di cui, fortunatamente, ho trovato piena partecipazione e sostegno. È un’etichetta relativamente giovane ma molto attenta e selezionata: gli ottimi risultati e riconoscimenti nel Top Jazz di questi anni stanno a dimostrarlo.
Come si è formato il quartetto e da dove nasce l’eccezionale affiatamento reciproco che si percepisce dall’ascolto?
Inizialmente si è formato attorno al progetto discografico e al mio sodalizio, sporadico ma di lunga data, con Achille Succi. Direi che in genere è molto importante scegliere bene i musicisti, nel jazz non sono solo interpreti ma parte integrante della partitura e ancor più nel mio caso. Ho cercato quindi musicisti sensibili a nuovi orientamenti e interessati a un progetto basato proprio sulla tessitura comune del processo musicale. Il nome del gruppo allude proprio a questo, Synapser significa qualcosa come “connettore di sinapsi”.
Ultima domanda: quali sono a tuo parere gli aspetti che differenziano “Coherent Deformation” da “Beauty Is a Rare Thing”?
Direi che “Beauty Is a Rare Thing” si confronta con gli aspetti più strettamente jazzistici della mia esperienza musicale, cercando di trovarne una sintesi, un equilibrio. Con “Coherent Deformation” il tentativo è quello invece di allargare lo spazio sonoro, in modo più articolato e con altri riferimenti. Direi che, se la caratteristica del primo cd è l’equilibrio, quella del secondo è la stratificazione, il primo si sviluppa in orizzontale, il secondo in verticale, credo…
2. CREMONA PRODUCE (feb 2007)
Sotto il segno di Paul Bley: Giancarlo Tossani, miglior talento jazz dell’anno
Giancarlo Tossani, pianista e compositore cremonese, ha ottenuto un riconoscimento di grande prestigio: è stato nominato miglior talento jazz dell’anno dalla rivista “Musica jazz”!Con la sua band”Synapser”ha realizzato due ed pubblicati dalla rinomata etichetta Auand:”Beauty Is a Rare Thing” nel 2004 e”Coherent Deformation” nel 2006. Prodotti raffinati, colti, deliziosi e autenticamente creativi, sia nei contenuti musicali che nella confezione. Dischi che non a caso hanno scalzato in graduatoria quelli di nomi ben più noti del settore, non solo per questioni tecniche, ma, a nostro parere, per la rara capacità di uscire da quell’aura di “maniera” che accomuna tante espressioni del jazz contemporaneo, non solo a livello nazionale.
Le domande che ti rivolgo hanno origini prevalentemente emozionali, nel senso che nascono direttamente dalle impressioni nate dall’ascolto dei tuoi due dischi. Ciò che colpisce in primo luogo è la grande maturità della musica, non solo a livello di tecnica, ma più in generale nello stile. Viene spontaneo dunque chiedersi quale apprendistato ha alle spalle Tossani, quali esperienze e percorsi musicali hanno preceduto queste due ottime opere.
Ho iniziato lo studio del pianoforte da ragazzino, non ero certo un allievo modello, mi piaceva improvvisare ed ero attratto dalle “altre” musiche, e poi ho proseguito alla scuola di Nino Donzelli. Ma è solo negli anni dell’università e in seguito che mi sono dedicato in modo più approfondito allo studio del linguaggio jazzistico. Ho conosciuto Roberto Cipelli e poi Mario Piacentini, Luca Flores, ho frequentato seminar! con Mal Waldron e John Taylor, insomma tutta la trafila necessaria…
Ma è importante ribadire l’aspetto dell’ascolto: i concerti e i musicisti che ho incontrato grazie al Festival Jazz della nostra città per me sono stati e sono tuttora estremamente importanti per capire e cogliere delle cose al di là dell’orizzonte immediato.
Un altro pensiero che sorge immediato riguarda la straordinaria sintonia tra i musicisti: un autentico gruppo, nel senso che il tutto supera di gran lunga la somma delle parti (aspetto che non sempre trova conferma nel jazz, dove none raro percepire le singole personalità come non del tutto amalgamate). Da dove nasce questo accordo perfetto?
Programmaticamente il nome della band Synapser significa qualcosa come “creatore, connettore di sinapsi’. Di conseguenza interpreto il mio ruolo di “leader” non nel senso tradizionale di figura predominante del gruppo ma casomai come quello di “synapser”, sollecitando buone connessioni tra i musicisti, attivando processi di relazione e di scambio. In questa sorta di “eco-sistema” che è un gruppo musicale è importante che tutti colgano e trasmettano segnali, siano compartecipi.
Il cuore di questo “accordo perfetto” è quella che considero un’affinità elettiva, e anche un po’ misteriosa, con Achille Succi, di cui mi sono “innamorato” al primo ascolto, più di una decina di anni fa, in un concerto di Progetto Jazz. Da allora la mia collaborazione con lui è proseguita, in modo occasionale ma continuativo, fino a farne una figura per me imprescindibile. Tito Mangialajo incarna perfettamente la figura dell’accompagnatore, direi un po’scherzando una sorta di idea platonica del contrabbassista, discreto ma al contempo presente, versatile ma sempre pertinente, sobrio ma intelligentemente propositivo. Precedentemente alla registrazione del primo cd non conoscevo invece Cristiano Calcagnile (sebbene sia anche il batterista di Stefano Bollani), me l’ha portato in studio Tito ed è stata… una magnifica sorpresa! Tellurico! Sia lui che la buona quantità di chili di “ferramenta sonora” che lo accompagna…
Non so se è un atteggiamento mentale da condannare, ma ascoltando questo tipo di musica, complessa, ricca di apporti e di suggestioni, viene spontaneo andare alla ricerca di quelle che in linguaggio filologico si possono definire “fonti”. In altre parole, nella scrittura dei brani, hai tenuto presente qualche modello particolare, qualche autore o corrente che ha lasciato tracce particolarmente profonde in te? (Premetto, prima di conoscere la risposta, che in ogni caso, le eventuali fonti di ispirazione, deliberate o latenti, sono state perfettamente metabolizzate da Tossani, che ha elaborato una musica “sua” dotata di un marchio inconfondibile).
Nella copertina del primo cd di Synnapser, tra l’altro dedicato a Ornette Coleman, avevo posto un paio di versi di Borges: “Menino vanto altri delle pagine che hanno scritte; il mio orgoglio sta in quelle che ho lette”. Suonare è un processo di ascolto certamente, non solo per gli innumerevoli ascolti che lo hanno preceduto, che ti hanno formato, di cui onestamente e orgogliosamente farsi vanto, ma è anche, o dovrebbe essere, far sì che il tuo ascolto ti sorprenda, ti faccia ascoltatore tra gli ascoltatori, reali o immaginari che siano.
E qui siamo, se vogliamo tracciare un percorso, alla ricerca di quella “deformazione coerente” (Merleau-Ponty), di uno “stile” che il secondo ed di Synapser fin dal titolo cerca di esplicitare.
I nomi sarebbero forse molti, per limitarsi ai pianisti, tra quelli storici direi Paul Bley, in questo momento invece uno con cui trovo molte affinità è Craig Taborn, ma mi accorgo che, imprevedibilmente?, sono determinanti anche cose della mia adolescenza, il pop, il rock, il progressive; in questi giorni per esempio sto riascoltando gli Henry Cow, mi accorgo di conoscerne ancora i dischi a memoria…
Altra curiosità: quanta libertà hanno i musicisti rispetto alla partitura scritta? Quanto margine ha l’improvvisazione? Quanto grande è l’apporto individuale che gli altri musicisti possono inserire nei brani?
In genere la composizione che sottopongo ai musicisti non ha una forma definitiva a priori, è piuttosto una cornice, un progetto a cui essi, pur certamente nell’ambito della direzione che suggerisco, sono chiamati a contribuire con la propria sensibilità e creatività, un modello di interazione, più che una forma chiusa. L’improvvisazione ha una parte importante, proprio nel suo significato di composizione istantanea.
Ultima delle tante domande che ti vorrei rivolgere, ma che devo contenere per ragioni di spazio: la dimensione del concerto dal vivo: quali differenze rispetto alla performance in studio? E soprattutto: quali difficoltà per trovarsi uno spazio in cui esibirsi di fronte ad un pubblico?
Banalmente le differenze sono che in studio non c’è un pubblico, quello che sbagli potenzialmente lo puoi rifare, la lunghezza dei brani è condizionata da misure più o meno standard, quel “particolare” che incidi diviene “universale” e rimane nel tempo. Cioè in studio hai a che fare con una temporalità astratta e una materia governabile, in concerto sei “nel” tempo il che è insieme eccitante e frustrante.
Le difficoltà pratiche sono legate alle sempre più scarse risorse dedicate al jazz, fortemente presente nel nostro immaginario musicale ma spesso scarsamente presente nelle politiche reali.
Mondo Padano, 2016